Il vero fa male, ma va conosciuto:
BASTA STATI DI FB IDIOTI, il tumore al seno è una triste realtà non un giochino del cavolo su un social-network o uno scambio di mail assurde.
Capisco la campagna delle femministe, capisco che si tratta comunque di impegnarsi, di provare a fare Qualcosa, quindi lo trovo migliore dell'ignorare totalmente la faccenda.
MA
Questo è Vero, Questo fa male, Questo sensibilizza sul serio sul tumore al seno.
Non scrivete colori di mutande, numeri di scarpe, e posti a seconda del compleanno o di chissà cosa per far credere che siano dimensioni o viaggi esotici: sensibilizzare davvero vuol dire conoscere. Vuol dire scontrarsi con la bruttissima realtà.
Io non vado 60 mesi in Africa o il mio moroso a chissà cosa di 30 cm che dura 10 ore: Io leggo cosa succede, cosa si può fare, cosa vuol dire davvero.
E lo condivido con voi.
è forte, è triste nessuno chiede di leggere e informarsi Per forza.
Ma se davvero vi interessa, se davvero volete rendere più sensibili alla questione gli altri (e a quanto pare i maschi in particolare): Condividete il vero, non stati idioti.
http://www.linkiesta.it/the-scar-tumore-al-seno
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mercoledì 18 settembre 2013
sabato 14 settembre 2013
Fraganze 11 Stazione Leopolda 13-15 Settembre
FRAGRANZE 11
13 settembre 2013
Stazione Leopolda
Stazione Leopolda
Con grande piacere informo riguardo " Fragranze", che torna alla stazione Leopolda da oggi (apertura al pubblico, 14 settembre) a domani 15 settembre!
Profumi, emozioni, sensazioni ed ottima compagnia tornano a farci compagnia in questo week end di sole e novità.
E quale migliore occasione per avviarsi, felicemente, verso l'autunno? Non rimarrete delusi, ve lo assicuro...
Qualche foto delle scorse edizioni
giovedì 12 settembre 2013
Il mondo nei tuoi occhi
Il
mondo nei tuoi occhi
mi prese del costui piacer
sì forte,
che, come vedi, ancor non m'abbandona.
che, come vedi, ancor non m'abbandona.
È mentre ascolto le note di Tiersen che mi torna in mente A.
In questa fredda serata invernale, un thè,
poche note e tanti ricordi… ricordi che non possono perdersi, sogni, parole,
battaglie, dubbi, pensieri che vanno raccontati.
Il plumbeo banco di nubi che ha minacciato
pioggia tutto il giorno ha dato seguito al presagio, e come le gocce che
scorrono impavide sulla mia finestra, questi ricordi devono scivolare dalla
mente al cuore… dal braccio, alla mano, alla penna, alla parola. Devono
prendere forma per non essere dimenticate, per essere comprese,
per essere ascoltate.
Oltre al suonare, il dott.re A adorava
riparare la gente.
Inerti corpi prima caldi, si perdevano in una
specie di falso contatto col sorriso e il calore cominciava a disperdersi con
lo stesso ritmo con cui una pietra si raffredda dopo essere stata tutto il
giorno al sole.
Guardava il tutto impassibile, dietro la
mascherina ed i guanti insanguinati.
Il cuore del paziente ancora batte, non viene
fermato durante questa operazione, e spera insieme ai polmoni che combattono
per non perdere il respiro.
L’innesto su arteria sana, lo stabilizzatore
tissutale che limita il movimento di una piccola area del cuore mentre il resto
dell'organo continua a pulsare normalmente…
E non è forse questo che si fa ogni giorno?
Fermarsi un attimo, frenare la rabbia,
il rancore, il pianto… sapendo che il mondo
continua a girare e che ti devi comportare il più normalmente possibile continuando
a camminare in un mondo di folli.
Che non devi arrenderti, non puoi fermarti ma
puoi fingere di star bene mentre qualcosa si è rotto, qualcosa non fa più.
Le lacrime dei parenti rimbalzano al suolo
come perle di una collana spezzata
e gli interventi si susseguono uno dopo
l’altro, mani ferme, cuore stabilizzato…
il tuo dottore,
per questa volta.
Prima di conoscere il sapore
delle fragole con lo zucchero, non le chiediamo ogni giorno. Ma una volta
conosciuta la potenza, l’adrenalina, l’energia che qualcosa che ti piace
infonde nel tuo essere, nel tuo animo: non puoi farne a meno.
E così è per te l’operare.
Come un funambolo, con in
bilico la vita delle persone, cammini sulla corda tesa accettando il rischio:
non puoi pensare che puoi cadere, non deve succedere e assapori il gusto che
procura scampare al pericolo.
Se passi la vita cercando di
non rompere niente, lentamente muori.
Quindi tu continui ad
operare, a rischiare, a guarire e talvolta, sottovoce,
ripeti un nome. Risponde
soltanto il tuo silenzio, ma le stelle brillano ugualmente.
È quel maledetto,
sopravvalutato, scivoloso, grottesco, inaccessibile dentro
che non vuoi ascoltare.
Quello solo non vuoi
guarire, non vuoi affrontare, non vuoi capire.
Guardo la finestra e mi ricorda il tuo
sguardo perso nel sangue.
Il pomeriggio in cui mi
accorsi di te A. … fu il più bello della mia vita, ma anche il più brutto. Davi
l’impressione di un delicato dipinto racchiuso in una cornice troppo pesante:
un volto cosparso di rughe che racchiudevano preoccupazioni nascoste. Le
sopracciglia come piccoli ombrelli spioventi, e gli occhi di un castano chiaro,
fragile… dolce. Ma lo sguardo triste, perso.
Avere in mano la vita delle
persone può dare gioia, soddisfazione, potere, ma può anche gravare come il
peso di tante tombe, ed il corpo raddoppia il volume… come se le morti passate
lo stessero tirando giù, verso di loro. Il cuore, le prime volte dispettoso,
irrequieto come un uccello in preda al panico, aveva a sua volta imparato a
capire, ad aspettare, a dimenticare. Ma rimaneva intrappolato in cerca di fuga,
come nella grande sala di un tempio.
La pelle levigata e tesa
come quella di un tamburo, i brividi che percorrono la schiena per un lungo
attimo nonostante il caldo del camice e del corridoio e uno sguardo alla solita
finestra, fedele compagna in questo percorso di vita: il cielo si tinge di bruno, di fango… sbattuto di qua e di là come
un foglio di carta al vento, deglutisci e ti avvii verso i parenti del
paziente.
“Ma è sicuro, dottore, che
le analisi siano fatte bene? Non è possibile! Si sbaglia!”
e dalla negazione passano
alla rabbia, alla depressione, al crollo…
Qualcosa non va e tu l’hai
trovato, è inguaribile e non sei Dio come pensavi con in mano quel certificato
di studi, dopo tanti anni di sudate carte.
Annuisci, lasci parlare gli
assistenti, gli infermieri e te ne vai, tornando all’incommensurabile
profondità dell’apparenza come diceva Nietzsche.
L’uomo “non vuole nulla e
non pensa nulla, il suo cuore è fermo, solo il suo occhio vive. È una morte ad
occhi aperte”.
“Come fai a vivere così?” ti
chiesi un giorno. “è ciò che ho scelto. È ciò che amo.
È ciò che sono.” Mi
rispondesti. “ Sarebbe stato molto più semplice nascere sasso.”
“Cosa intendi?” mi avevi
incuriosita. “ Saresti ancora più freddo, posato, forte?”
“Non è per questo. Intendo
un sassolino di fiume, non una roccia. Un piccolo sasso rotondo, levigato dalla
corrente, un bel giorno trovato da un bimbo che mi stringe nel suo pugno e mi
porta in tasca considerandomi speciale speciale… per niente al mondo mi
scambierebbe con qualcos’altro”
“ma per me tu sei speciale!”
“non lo si è mai abbastanza,
Mai abbastanza.”
Pulisci il cucchiaino del caffè passandolo
tra labbra e lingua, godendoti l’ultima amara goccia di piacere e rimiri la
finestra. Cosa dirai mai a quella finestra che non puoi comunicare a nessun
altro? Cosa pensi ogni volta che cammini con quello sguardo perso, freddo,
posato?
Sono gelosa di una finestra, figurati. Lei ha
sempre le tue attenzioni, lei racchiude i tuoi più profondi pensieri, le tue riflessioni
e sa di vederti ogni giorno, per studiare, per capire meglio un caso, per
guardare oltre la siepe, e quando si fa buio, darti la buonanotte e poi di
nuovo il buongiorno.
È questa la tua grande colpa A., il silenzio.
Il tenere tutto dentro: il non avere saputo, il non avere avuto l’umiltà di
dire a un fiore, tu che respiri come me, aiutami.
Una volta mi tenesti tra le mani, oltre al
guardarmi, al rivolgermi poche parole, mi sorridesti e carezzasti dolcemente. “è
così che sarà il paradiso” pensai “è questo che succederà se saremo tutti più
buoni”.
Ma rare volte ti ho visto così tranquillo, la
tua intolleranza si mostrava direttamente proporzionale al passare degli anni:
maniaco dell’ordine, del controllo,
della diffidenza.
Ti ho visto uscire con qualche donna, tornare
stanco, deluso; un’infermiera, la capo sala, la segretaria, persino, una volta:
ma nessuna ti soddisfaceva, nessuna riempiva il vuoto che celavi ben bene ma
che io vedevo ogni sera, ogni tramonto, ogni alba.
Retrogusto di tappo in tutti i sorsi che
queste parentesi femminili ti offrivano di sé.
Spudorate, timide, a volte, insistenti,
spesso.
Fin quando una volta ti vidi tornare con un
profilo migliore, di una semplicità incantevole:
ma anche quello non durò.
A quanto pare era un limbo fatto a gironi, ma
avresti mai raggiunto il tuo paradiso?
Certe aspettative, a volte, pesano più
dell’indifferenza A.
Capirai un giorno che non esiste la
perfezione: non esiste in assoluto, non ha senso cercarla, non ha senso
chiederla e farla giudicare. Non coinvolgere i tuoi familiari, non richiamare i
tuoi fantasmi, Vivitela, vivitela e basta!
In quel lato del cuore, quel lato irrazionale
che tu credi di detestare in realtà ci sono scritte tutte le tue speranze. Sono
quelle che ti rendono speciale, sono quelle che lo fanno battere, che ti
provocano emozioni!
Credi che il freddo sguardo da chirurgo ti
porti avanti a vivere?
Perditi nell’inconfondibile leggerezza
dell’essere ogni tanto… permettitelo.
Lo meriti, lo aspetti. Lo vuoi, lo so meglio
di chiunque altro. È questo che ti rende speciale A., è questo che ti rende
fragile, lo so, ma che ti rende unico.
Lasciati una possibilità di vita: hai bisogno
di vivere per riuscire a darti fiducia,
ed hai bisogno di dare fiducia per vivere.
Mi guardavi e sussurravi “certe donne sono
trappole in cui si cade e da cui non si ha più voglia di uscire. Io non posso
rischiare, non mi posso perdere.
Da un amore totale non ci si riprende mai”. E
ti rimettevi sui libri, trattati di pagine e pagine, anatomia, calde viscere
descritte in fredde righe contate. E leggevi per non andare alla deriva da
solo, sognando il mare senza età, l’umiltà ed i piaceri dell’infanzia.
“ È come un fulmine su un albero: arriva ed in
un momento bruciamo, bruciamo ed è intenso, meraviglioso. Poi non resta che
cenere. Non si è mai visto un ceppo, anche vivo, ridare corpo ad un albero
intero ed io non posso permettermi di essere cenere, morirò albero, solo, ma
rimetterò in vita tanti altri alberi che potranno scegliere se ardere, o
marcire, se fiorire o seccare…
A loro darò la scelta, io starò a guardare, a
dirigere l’orchestra.”
Eppure sentivo che l’obiettivo di entrambi
non era raccontarci il passato,
ma inventarci un presente.
Tornavi
in ospedale, I chirurghi sono molto attenti ai dettagli: vi piacciono le
statistiche, le liste di cose da fare e le procedure degli interventi. I
pazienti vivono perchè vi piace studiare i passaggi, ma per quanto vorreste
sempre far affidamento sui numeri e sul protocollo, sapete anche che alcune
delle più grandi scoperte scientifiche sono capitate grazie ad un incidente. Dalla muffa la penicillina, dalla corteccia di
un albero velenoso una cura contro la malaria. Da una compressina blu contro la
pressione alta l’impotenza è stata bandita. E’ difficile accettare il fatto che non siano
sempre il duro lavoro o l’attenzione ai dettagli a darvi le risposte che cercate.
Ma a volte dovete solo sedervi, rilassarvi e aspettare l’incidente fortunato:
e se
questo non accade, dimenticarlo. Non permettere che ti trapassi come un treno
in corsa, come un carro senza freno.
Ti
sfili i guanti, un’altra anima persa, non è colpa tua. Hai fatto ciò che
potevi.
Ma
un guanto è come un ricordo: conserva la forma del corpo così come il ricordo
conserva quella della realtà; cerchi di autoconvincerti, va tutto bene A., non
è colpa tua, hai fatto il possibile. Ma il guanto è distante dalla tua mano
quanto il ricordo dal tempo andato. È un indumento nostalgico, il guanto.
Vuoi dimostrarti freddo, esser controllato ma in
realtà io so che hai in te una dolce sensibilità: ed è questa caratteristica
naturale di chi ha ricevuto qualcosa di assolutamente prezioso dai genitori.
E sai perché sei bello? Perché non hai gerarchie,
perché non hai tempo, non hai consapevolezza del tuo fascino. Un’orgia di
sentimenti in cui non si comprende chi ha la meglio, in cui non si può
prevedere se alla fine vincerà la morte o la vita, l’amore o il dolore. Il
tempo ti ha sicuramente rubato una cosa molto preziosa:
la spensieratezza.
Ma vedi, nella storia di ogni persona c’è una diga. Da
una parte, l’acqua che cresce e scalcia ed è energica. Oltre lo sbarramento, la
terraferma. Io di te so la terraferma, perché non mi racconti l’acqua che non
ho visto?
Ti
ho visto felice, raramente, deluso, crucciato certe volte…
ma
ancora non comprendo come quando tutto crolla tu riesca a stare in piedi.
Il
destino non fa cenni: alza la mano e dà la risposta, non suggerisce. Le
risposte le hai quando lui ha finito e c’è quando guardi indietro, mai quando
guardi avanti.
Hai
sempre sorriso poco perché non ti riusciva bene,
per
sorridere bisogna essere allenati.
Ma
Mai e dico Mai ti ho visto piangere. Anche quando il destino ti ha portato via
la tua cara sorella, unico sfogo, unica parentesi dalla tua perfetta
ininterrotta ascesa, carriera, hai serrato la bocca.
In cortile
c’era un circo senza biglietto: querce contorsioniste, uccelli funamboli e pini
trampolieri. Tu hai acceso la tua Marlboro e hai guardato il vuoto.
“Non
sto fumando troppo, fanno le sigarette più corte è per quello che durano meno”,
hai detto guardando verso di me. E poi sei tornato alla sigaretta, che via via
bruciava, finiva, ti lasciava anche lei,
solo.
Ti darei azioni in cambio di pensieri A., sul
piatto della bilancia, lo so, ci perderei nel cambio della valùta, ma quanto
vorrei farti vivere davvero, farti emozionare, anche piangere se possibile, ma
lasciarti andare.
Ogni persona fa finta: fa finta di essere
felice, fa finta di dimenticare, fa finta di essere speciale, di innamorarsi,
fa finta di essere immortale.
Ma come faccio a farti stufare di queste maschere?
Come faccio a farti togliere il tuo velo? A farti mostrare per quello che sei e
davvero provi?
Cos’ha il tuo sguardo…? non mi rassegno che
quello sia il tuo sguardo, e basta.
L’autodifesa, il disincanto… ma anche tu sei
fragile A.!
Che vuol dire avere bisogno? Si hanno un
sacco di bisogni.
Bere, mangiare, innamorarsi.
No quello non è un bisogno dottore non è una
debolezza, quello è un sogno, è uno spaventoso abbandonarsi, un dolce crederci.
Quando ho messo a stendere le parole nere sul
foglio bianco e la verità le ha asciugate ho capito che la verità non è fatta
di bianchi, né di neri, e nemmeno di grigi: la verità è colorata, e fa male
spesso, fa male. Ma non puoi ragionare solo con la mente, solo di “pancia”
dottore.
Le esperienze restano poco nell’anima, fanno
spazio ad altre esperienze come le cose che mangi: l’intestino sparecchierà
tutto.
Ma il cuore no, quel che rimane ti uccide… o
ti fortifica, ma rimane nel tuo sangue, nelle tue ossa, nelle tue vene. Ed il
tempo si diverte a rovesciare clessidre.
Riinizi da capo, ti rialzi, caschi, ti rialzi
ancora. Ma non sentirti per questo un debole!
Stai spesso in silenzio, ma ti sento dalla
finestra ascoltare dolci sinfonie…
Mozart il più delle volte.
Ci sono sinfonie che andrebbero messe in
tasca, per tirarle fuori quando servono.
Ci sono sinfonie che andrebbero caricate come
pistole, per premere il grilletto
e ammazzare il dolore che, se rimane
inspiegato, cresce.
Tu sei effettivamente come l’albero che mi
narravi, che non vuole bruciare.
Il legno sembra fermo, ma è sottoposto a
pressioni interne che lentamente
lo spaccano.
La ceramica si rompe, fa subito mostra dei
suoi cocci rotti. Il legno no, finchè può nasconde, si lascia torturare ma non
confessa. Tu sei di legno. Hai sempre pensato che dovevi cavartela da solo,
imparando a fare i conti con le storie degli altri, con i loro organi, non con
i tuoi. Ma il cuore ha più memoria di te.
Le ferite sulla pelle si rimarginano in
fretta, l’epidermide si rinnova di continuo, contiene molte cellule staminali,
sono cellule pronte a rimpiazzare quelle morte, sono le seconde schiere di un
battaglione. Il guaio è che il cuore di queste cellule miracolose non ne ha.
Hai una sola fila di soldati. E Amen.
Chiudi la finestra e devo smettere di
guardarti, la notte inizia a cullarci ed il vento fischia dalle serrande chiuse
male.
Per te essere grandi significa saper
rinunciare. “Chirurgo”, rispondesti subito quando da piccolo ti chiesero cosa
volevi fare. E da grande mi sussurrasti che avevi voglia di vedere le persone
dentro, tu che dentro non le avevi mai sapute vedere. Chissà se c’è un marchio,
un’etichetta, se l’anima dà qualche segno di sé.
Ma la tua anima dov’è? L’hai mai lasciata
andare davvero?
Per qualche strana ragione tieni separate
mente e cuore, ragionamento e sentimento, come due pietre magnetiche dello
stesso polo.
Il cielo davanti a me pallido riflette sulla
tua finestra i sogni passati e le speranze future.
Cosa ha in serbo per te il destino? Sarai
capace di assecondarlo, di arrenderti a viverlo, questo Domani?
Vorrei qualcuno che prendesse ad una ad una
le corde nere attorcigliate intorno al tuo cuore come capelli impigliati in un
pettine ed iniziasse a scioglierle e domarle, a carezzarle.
Per ora preferisci il controllo, i corpi
inermi che si piegano sotto i tuoi ferri, le decisioni dal tuo lato, da
soggetto. Non ti piace esser scelto, non ti basta partecipare ad un consenso,
vuoi decidere tu, e basta.
Il tuo tocco gelido come acqua di roccia mi
ha percorso con un brivido.
Le dimentichi le debolezze, le rimuovi. Come
quando si schiaccia un cuscino col dito: si sente una morbida resistenza e
subito l’incavo sparisce ed il cuscino torna bello liscio come prima. Così tu,
puoi cedere per un secondo, puoi sbagliare, avere un’indecisione, ma non se ne
deve accorgere nessuno: tutto deve tornare regolare, ligio al dovere, attento
ai minimi dettagli di perfezione.
Avevo l’impressione di fondermi nel vento
mentre tu, di nuovo alla finestra dell’ospedale, fumavi in pausa un’altra
sigaretta, con nello sguardo di vaga sonnolenza che accompagna la tristezza più
cupa e senza lacrime.
“Ancora condoglianze dottore… ”, annuivi.
Della gentilezza che te ne facevi?
Non avrebbe fatto tornare in vita tua
sorella, non avrebbe migliorato le cose, e non ti dava sollievo, tanto meglio
non provar nulla e rimanere fermo, apatico, statico.
Ancora per mesi ti osservai, e passarono gli
autunni, gli inverni, e le primavere
tornò l’ estate e con quella un accenno di
sorriso.
Finchè un giovedì pomeriggio, che sembrava
proseguire come ogni altro giovedì, incontrasti i suoi occhi nella grande
vetrata del corridoio centrale, dove il paesaggio notturno, velato da una tenue
pioggerella estiva,
si perdeva nelle prime tenebre.
Vi guardaste per un attimo,
un secondo lungo un secolo da quanto mi
sembrò notare.
Lei, gli occhi come la notte, scuri, profondi
e una scia di splendore caldo e luminoso. Ecco cos’è il fascino! Pensasti.
E tu, buffo per una volta. Impacciato oserei
dire, timido, scostante verso qualcosa che per un attimo non riuscivi a
controllare.
“Le piace eh?!” osa un collega “ è nuova in
reparto, anche noi l’abbiamo vista entrare da poco, è una tirocinante!”
Scosti lo sguardo distratto e offeso.
“Si dice viva solo di impulsi irresistibili e
la cosa incredibile è che ha la forza di realizzarli!”
L’opposto mio, pensasti . Salutasti
mostrandoti indifferente ai racconti del collega, la guardasti un’ultima volta
sorridere, sicura di sé quasi troppo,
e tornasti verso casa.
Nell’aprire la porta, un sussulto. Era come
se tutte le cose che avrebbero dovuto esserti familiari si girassero dall’altra
parte. Entrasti timidamente, quasi chiedendo permesso come in casa d’altri.
Cosa ti succede A.? guardasti dalla finestra. L’aria color grigio piombo.
Le nuvole venivano trascinate via dal vento
con una forza incredibile.
In questo mondo non c’è posto per gli attimi
felici, se ci sono, pensasti, come queste nuvole verranno presto spazzati via e
allora perché illudersi perché volersi far del male? Nessun posto. Ed ognuno è
solo sé stesso, purtroppo.
Il tempo scorreva trasparente, silenzioso,
goccia a goccia accompagnato dal rumore dei ferri. Ma quel che poteva sembrare
una routine quotidiana, a me appariva tanto diversa dal solito: vedevo uno
sguardo nuovo, differente.
Ed una certa smania di conoscenza, una velata
curiosità.
Ancora sguardi che si incrociano nel riflesso
di un vetro, e una mattina un caffè fugace, sorpreso al tavolo per un ritardo dovuto
al traffico, sfiori la sua mano su una bustina di zucchero da conquistare.
“Prego, prima lei” e abbassi lo sguardo.
Sorride.
Leggi distratto un appunto
sulla sua agenda: “Chi più si ama meno può amare. Leopardi”
Quanto è vero. Chissà un
giorno non finisca di innamorarmi di lei, pensasti.
Non c’era fretta, ma c’era
curiosità e la guardavi.
Me ne innamorerei a poco a
poco, in conversazioni come queste, fatte di sguardi, di poeti, di pensieri
raccontati dalle carezze. Come quando le stelle appaiono da qualche spiraglio
di un cielo coperto di nuvole.
Chi nella vita non capisce almeno una volta
la disperazione e non capisce quali cose valgano davvero, diventa adulto senza
mai capire cosa sia veramente la gioia.
Le cose da fare in ospedale in quel periodo
erano moltissime, ed i giorni rotolavano senza che riuscissi a capire cosa
stesse succedendo.
La nuova dottoressa però dava sempre un
fervore diverso al tuo sguardo, che chiedesse un’indicazione, venisse mandata
da te per un consulto o semplicemente incrociasse il tuo sguardo in caffetteria
o in corridoio.
Iniziavi ad ammettere che le sue labbra
vermiglie sfoggiavano una rotondità carnosa che suscitava costantemente il
desiderio di un bacio.
In piena forma, la misteriosa dottoressa
indossava il camice abbastanza da lasciar intravedere l’anatomia ben
proporzionata, da lasciar indovinare le forme, ma non troppo, in modo da
rimanere elegante e con semplice apparizione calamitare gli sguardi.
Sentivi qualcosa A., e lo devi ammettere. Ti
sentivi più tu, di base.
La forza della bellezza è quella di far
credere a quanti le vivono accanto di essere diventati belli anche loro. E tu
ti sentivi, A., e ti sentivi più bello, più vivo, più motivato. Ma come si era
ampliato il senso del bello, si era manifestata una sensazione di mediocrità
che ti trafiggeva come una rilevazione nei confronti di molte persone che
frequentavi in città.
Non l’avevi mai percepita in modo così netto
ma da allora non ti abbandonò più. Futili discorsi, vuoti, inconsistenti ti
ronzavano all’orecchio infastidendoti, annoiandoti. Preferivi un’intera
giornata in sala operatoria, al riposo pitturato di mediocrità, circondato di
false speranze, e risatine e povertà lessicale. Un fantasma afono e trasparente
avrebbe fatto più colpo di loro sulla tua attenzione.
Capisti che il modo migliore di ottenere una
risposta soddisfacente era ormai non fare domande, e iniziasti a preferire
sempre più l’ospedale, la casa e la nuova ragazza alle compagnie conosciute
dall’infanzia, ma ormai prossime al farsi una strada loro, un percorso diviso e
diverso dal tuo. La nostra società è organizzata in modo tale che conviene
essere una cosa piuttosto che una coscienza. Pensasti.
Ma l’aspettativa è una bestia che si nutre di
sé stessa.
A volte quello che ci
aspettiamo al confronto con quello che non ci aspettiamo impallidisce. Dovremo
chiederci perché ci attacchiamo a queste illusioni, perché quello che ci
aspettiamo ci fa restare fermi in attesa... quello che ci aspettiamo è solo
l'inizio. Quello che non prevediamo invece è ciò che cambia la nostra vita.
C’e’
un motivo per cui i chirurghi imparano a maneggiare i bisturi.
Vi
piace fingere di essere scienziati duri e freddi.
Vi
piace fingere di non avere paure.
Ma
la verità e’ che diventate chirurghi perché da qualche parte, in profondità,
pensate di poter tagliar via quello che vi tormenta: debolezza, fragilità, morte.
Ma nella
vita, A., solo una cosa è certa, a parte la morte e le tasse.
Per
quanto cerchi di evitarlo, per quanto buone siano le tue intenzioni, commetterai
degli errori… ferirai delle persone. Sarai ferito anche tu.
Tutte uguali son le strade
di vita, nessuno avverte della via sbagliata
E nella selva oscura
dell’orrore, turbina l’uomo come sabbia al vento.
Ma io lo sento che sei
cambiato, che provi qualcosa, che vuoi qualcosa.
Voglio
che tu prometta questo, dottore: Se ami qualcuno, diglielo.
Anche se hai paura che non sia la cosa giusta.
Anche se hai paura che possa portare qualche problema.
Anche se hai paura che rovini completamente la tua vita.
Dillo.
Dillo ad alta voce.
E poi riparti da li.
Anche se hai paura che non sia la cosa giusta.
Anche se hai paura che possa portare qualche problema.
Anche se hai paura che rovini completamente la tua vita.
Dillo.
Dillo ad alta voce.
E poi riparti da li.
So cosa puoi pensare: sono di legno, non sono
un bravo nuotatore.
E questa sensazione è come un trampolino,
come sull’orlo, con alla fine il vuoto ed un silenzio profondo, più profondo di
un baratro. Proteso verso quel richiamo che ti avrebbe tolto all’abbandono,
decidesti.
Mi farò avanti per una cena, cosa capita
capita.
E ti avviasti verso la macchinetta del caffè,
dove Lei era solita andare nel primo pomeriggio verso quell’ora: durante
l’attesa non si capisce se sia gioia o supplizio quello che stai vivendo. È
come prepararsi ad un salto di cui non si conosce l’arrivo.
Ti blocchi, forse non è il caso. Perché
rompere un così ben costruito equilibrio, perché rischiare quando ora la vita
la trascinavi così bene?
Ti volti: dieci passi per sparire, dieci
passi per lasciare tutto come era,
per rientrare nel dolore.
Non chiedetemi come fosse mia madre. Tutti
iniziano a pensare: è così perché è stato cresciuto così, sarà la mamma che
l’ha fatto diventare tale.
Mia mamma ha solo fatto ciò che di più
splendido una mamma possa fare: mettermi al mondo. E si può descrivere il sole?
Emanava calore, forza, gioia.
E mio padre aveva folti capelli scuri, ed
occhi di ghiaccio: forse da quelli avevo preso un po’ del mio freddo. Ma era
tanto sereno quell’uomo, pacato e sempre gentile. La voce da nobile, solenne,
spessa, profonda, color delle statue di bronzo illuminate dalle candele.
Era il nostro sangue che ci vietava di
nascondere la verità ai pazienti, ma di chiudere la nostra in un cassetto.
Tornasti davvero indietro. Un po’ me ne
compiacqui, sono gelosa lo ammetto,
ma mi incuriosiva vederti così preso per una
volta, in fondo mi faceva piacere…
Tornasti a casa sotto il firmamento, velluto
profondissimo trapuntato di diamanti.
Non vi eravate mai detti addio, con tua
sorella.
Questo di certo non aveva migliorato la
situazione. Tu già alquanto burbero, tanto chiuso a riccio in quella corazza di
legno a te tanto cara, invece di iniziare a scheggiarlo, questo legno lo
rinforzasti.
“Potresti essere un po’ più dolce fratellone,
non devi fare sempre il duro” diceva spesso tua sorella. Ma tu continuavi ad
accusare, invece di giustificare.
Attaccare quando eri sospetto. Mordere
anziché difendere.
Ed era raro tu parlassi di te stesso. Aveva
provato a portarti al fiume una volta, stuzzicandoti con qualche frase di
Leopardi, con qualche carezza, cercava di tirare fuori quel po’ di te tanto
difficile da scavare. Ottenne scarsi risultati.
Tentò una volta anche di portarti in chiesa:
non una ricca, sfarzosa chiesa imbarazzante. Ma una chiesetta di legno,
semplice, calda, colore del miele. Rifiutasti.
Da chirurgo non potevi pensare ci fosse
qualcun altro a decidere sulla vita e la morte. Un giudizio universale, una
sorta di destino superiore, ci stava, ma l’idea di incontrare uno che era “il
padre” del mondo intero, o che passava per tale ?
non ci tenevi granchè.
Una volta però incontrasti un frate. Un
fraticello lungo e stretto, che dava l’impressione di essere composto da due
parti scollegate tra loro:
la testa ed il resto. Già ti piaceva, lo
sentivi simile a te.
Il suo corpo sembrava immateriale, una stoffa
priva di rilievi, un abito nero che cadeva a piombo come se pendesse da una
gruccia e da cui sbucavano piccoli sandali cordati, senza che si vedessero le
caviglia che contenevano.
Tutto l’opposto di Lei, pensasti. Fossero
tutti così i cristiani che girano nel mondo, veramente si eviterebbe ogni
tentazione e si starebbe tanto meglio, a mio parere.
In compenso dal saio sbucava la testa, rosea,
viva, nuova, innocente, come quella di un neonato appena uscito dal bagno.
Veniva voglia di abbracciarlo, ma che dico…
Lo osservasti chiedendoti come mai quel viso
non ti sorprendesse affatto e anzi avesse quasi l’aspetto di una conferma. I
suoi occhi sinceri ti scrutavano da dietro la leggera montatura degli occhiali.
Improvvisamente capisti “è senza capelli!” esclamasti, e lui sorrise. Da quel
momento cominciasti a volergli bene e anche senza parlare, tornasti in quel
convento sul colle tante e tante volte, sedendoti di fianco al Frate,
confessandogli tanto di te, solo con lo sguardo ed il silenzio.
Volevi convincerti di non voler bene a niente
e nessuno, era più facile.
Facevi il tuo mestiere, il chirurgo, e ti
sembrava anche troppo.
Ma guardando i bambini correre nel vialetto
di casa, giocare, spensierati, in fondo pensavi che più tardi si diventa adulto
e meglio è.
L’ospedale era il tuo vialetto, la tua vera
casa ormai, quello ti dava, stranamente, una serenità pacata: il controllo, le
vite, il silenzio, l’asetticità e la pulizia degli ambienti ed il sangue, tante
volte si, ma uno scorrere controllato, zampillii che sapevi comandare.
Monna Tessa era un ottimo ospedale, chirurgia
all’avanguardia, operatori di prima categoria e medici scelti e con grande
attenzione. Era acciambellato come un gatto gigante in cima alla collina,
bianco e azzurro chiaro come il cielo e le sue nuvole in una giornata
primaverile. Al piano superiore due grandi vetrate ovali a forma di palpebre
dominavano l’edificio e osservavano con fissità tutto ciò che accadeva in
cortile tra cancello e platani. E dal cortile, sia dell’ospedale che di casa
tua, la guardia veniva passata a me, fragile e silenziosa, ma vigile, attenta
ad ogni dettaglio. Guardando in alto, il tetto, dove sorgevano due balconi
mansardati in ferro battuto che facevano pensare alle orecchie mentre l’edificio
piegava verso sinistra, come una coda.
Da sempre volevi essere tu primario. Primario
dell’ospedale,
Primo in tutto, in realtà.
Ma per ora c’era Humphreys a scaldarti il
posto: alto, come appeso ad un filo, braccia e gambe gli pendevano nel vuoto.
Capelli bruni, troppo ispidi, troppo duri come stupiti di essere lì. Sempre
elegante, sempre sicuro di sé, veniva avanti per i corridoi lentamente,
osservando tutto e tutti e sorridendo, a volte. Come per scusare la sua
infinita altezza, come un dinosauro indolente che dica:
“non abbiate paura, sono buono, mangio solo
erba”.
“Lei sta uscendo con uno, lo sai?” il solito
collega con poco da fare, e tanto da parlare. Le macchinette del caffè possono
essere luoghi pericolosi, certe volte.
E spiacevoli.
Cercavi di fare l’indifferente, ma dentro ti
rodeva questa cosa, non ti andava giù, come un boccone di traverso, come un
pezzetto di cibo poco masticato.
Rispondesti questa volta, velando l’essere
stizzito: “è una bella ragazza, una bella donna, ci sta. Perché dovrebbe
interessarmi questa notizia?”
“Si fa per parlare dottore e poi girava voce
in ospedale…”
“Le voci non devono girare. E rimangono voci
non fatti.”
“Mi scusi…”
Tornasti in sala operatoria, ti aspettavano
equipe e paziente, lui un po’ meno cosciente. E cercasti di ignorare il
chiarimento, deciso a trattenere solo quello che ti conveniva. Deciso a
concentrarti sul tuo lavoro e nient altro.
Anestesia locale per addormentare
completamente la zona, perché con il paziente riesce tanto bene e con i tuoi
pensieri, no ultimamente?
Procedi poi con l’incisione che permetterà di
estirpare la zona affetta,
“Bisturi lama 12, prego”.
Tutti ai tuoi ordini, tutta la catena
perfetta, come un montaggio per successioni, ben impostato, anche se qui stai
smontando, stai aprendo, scrutando.
Prolassamento sul tessuto circostante. Insistente
questo forestiero.
Ed in effetti un po’ di scoccia di questa
uscita, vorresti estirpare anche quello di sconosciuto. Lei non è sua, ne sei
certo. Lei non può essere di nessuno.
O forse tua, al massimo, ma questo chi è?
Come qualsiasi altra operazione è richiesto
un periodo di recupero di varie settimane. E questo aspettasti anche tu,
insieme al paziente sonnecchiante, che sorrideva alla notizia dell’operazione
riuscita.
Alcune emozioni si rivelano così potenti che
tristi o liete che siano, ci distruggono.
Ed era così assurdo che l’assenza di Lei,
quasi sconosciuta, potesse darti tanto pensiero.
Iniziava una nuova estate e passavi ancora
meno tempo fuori dagli edifici: preferivi fuggire il caldo, perché il sole
faceva entrare l’allegria nel tuo cuore.
Mentre casa tua continuava a regalarti
conforto nel suo armonioso disordine
e l’ospedale nella sua ordinata collezione di
vite.
E Lei ti piaceva ogni giorno di più, non
poteva più essere tua, ma durante i mesi passati ci avevi parlato più del
solito, ci avevi scambiato più sorrisi, più sguardi diretti, senza il riflesso
delle vetrate centrali del polo.
Ti piaceva, era arrivata incastonata in un
enigma e non smetteva di piacerti perché continuava a rimanere intrigante, mai
di meno, sempre di più.
Mentre in passato ti aveva mosso al massimo
quello che avevano tra le gambe, di questa donna ti attraeva più l’aspetto
romantico, nobile, quasi sacro, e non il sesso.
Forse era stata questa la colpa delle altre,
mollate più per i giorni che per le notti: le giornate passate ad ascoltare
stupide civetterie avevano sminuito il loro valore, schiacciato il tuo
interesse, intaccato la loro aura sotto la cruda luce del sole,
molto più delle notti trascorse a fondersi
l’uno nell’altra.
Un mistico in cerca di mistero, che nella
creatura femminile avrebbe sempre preferito quello che non dava a quello che
concedeva tanto facilmente.
Ma a prescindere dalle belle parole, dai
pensieri ben connessi, tu la volevi,
era evidente.
“Non solo i libri sono belli” ti disse una
volta “ma mi fanno bene. I migliori antidepressivi del mondo, li dovrebbe
passare la mutua!” e ricambiavi il sorriso, quel dolce splendido sorriso.
E pensavi che sì, non avresti avuto troppo
tempo per star dietro a Lei ed ai suoi libri, ma che non era giusto ci stesse
qualcun altro. Anche se per pochi attimi al giorno, saresti stato volentieri tu
il suo antidepressivo, pronto a scriverti nella sua ricetta, pronto a
distillare ogni goccia di te, mg in dosaggio idoneo, pur di vederla felice.
Cominciasti a renderti conto di vivere una
scenografia, e peggio, una scenografia che non era la tua. Il tempo scorreva in
maniera tangibile, come gocce di stalattiti dal soffitto di una grotta.
Avevi passato la maggior parte dei tuoi
giorni imparando e ripetendoti che l’importante erano le cose materiali-
l’infinita lista di “robe” da acquisire ed esibire- e non davvero le emozioni.
Ti eri trascinato anni, convinto e Certo che amare
non sarebbe stato mai l’obiettivo primario, la vera necessità.
Da cosa sei nato A. secondo te? forse non da
un atto di amore in fondo?
Ma per te la priorità era sempre stata la
sopravvivenza.
E poi era arrivata Lei, facendoti scoprire
che si poteva vivere,
non solo sopravvivere, concedersi il lusso di
pensare a se stessi:
occuparsi anche dei sentimenti, dei moti
dell’animo.
In altre parole, del senso immateriale della
vita.
L’innamoramento è una malattia. Solo che
funziona esattamente al contrario di una patologia organica: fa tanto bene
quanto più fa male.
Più il virus è invasivo, virulento,
contagioso, più l’innamoramento è sconvolgente.
Niente bisturi, nessun taglio.
Un sentimento che va oltre la ragione,
l’interesse, la convenienza.
S. Agostino diceva “Da mihi amantem et sentit quod dico” (dammi un innamorato e capirà,
quel che ti dico), dunque l’ulteriore paradosso: l’irrazionalità porta alla
comprensione, alla ragione più profonda, la follia contempla la soluzione.
Da innamorati si ascolta meglio, si vede
meglio, si accarezza meglio.
Ti vidi venire verso di me, carezzarmi, poi
lo strappo.
Buio, torpore.
Ebbi poco tempo per capire cosa stava
succedendo: un po’ di linfa scorreva ancora in me, gocciolava sulla tua mano
calda e guardandomi intorno mi vidi più alta, stordita ma vicino a te, il prato
lontano, la finestra più vicina, i rumori più compatti, ovattati distanti, ma
intorno a me da un’altezza più consona: la tua.
Non stati più calcolando, mi avevi strappata
dal prato, emozionato, e stavi buttando il tuo cuore al di là dell’ostacolo, mi
rimaneva poco da sentire, vedere, stavo cedendo anche io ma erano gli ultimi
attimi più belli della mia vita.
In mano tua e sicuro per finire da Lei, per
conquistarla, per confidarle i tuoi più dolci, segreti:
l’amavi.
La passione mette sotto carica la vita, fa
tendere come un arco, la fa esplodere.
E per tutta la notte ti eri chiesto,
spontaneamente, sei non potevi proprio evitarla questa sofferenza da
innamoramento.
E avevi capito: potevi benissimo scegliere, a
condizione di voler evitare di vivere.
Pretendere di amare senza star male è come
alimentarsi attraverso una flebo:
non si muore, non si vive. Ci si nutre.
“Anche al più duro inverno, segue una dolce
primavera”, e avevi deciso che era l’ora di uscire dalla tana, di iniziare la
Tua primavera.
Come Lancillotto, consapevole dell’insana
debolezza che nutriva per Ginevra, aveva trovato il coraggio di dichiararle che
nonostante si sentisse frenato dal timore a gettarti in quel vuoto, non poteva
trattenersi:
“ in fondo ho un solo cuore da perdere”, le
aveva detto con fantastico ardore.
Così tu per una volta abbandonavi il freddo
bisturi e il camice bianco, e ti sporcavi le mani in un prato, staccando un
fiore che non avrebbe più potuto raccontare la tua storia, ma che era felice di
morire perché ne iniziasse una nuova, non più solo.
Se riesci a superare i
confini, la vita dall'altra parte è meravigliosa.
[Il
narratore è un fiore, un’orchidea bianca idealmente presente sia nel giardino
della casa che in quello dell’ospedale. Alla fine della storia A. troverà La
persona giusta e per donarlo a lei strapperà il fiore. Morto il narratore, di
una felice morte, finirà il racconto.]
Questa storia narra di te, o forse di me. O
semplicemente di un fiore, di una finestra e di un affermato chirurgo che
impara ad amare. Ma poco importa.
Quello che conta è che trasmetta emozioni.
Giugno 2013, Giulia Tolleretti
[ Alcune frasi,
citazioni o idee sono liberamente riprese dai seguenti libri/testi:
Ricordi di un vicolo Cieco & Kitchen- Banana Yoshimoto;
Ma le stelle quante sono & Io sono di legno- Giulia Carcasi;
Sdraiami- Barbara del
Vecchio;
Cuori allo specchio- Massimo
Gramellini;
L’odore del tuo respiro- Melissa
P.;
Le luci nelle case degli altri- Chiara Gamberale;
La meccanica del cuore- Mathias
Malzieu;
Memorie di una Geisha- Arthur
Golden;
La sognatrice di Ostenda & il bambino di Noè &
Odette Toulemonde – E. Emmanuel Smith;
Verrà la vita e avrà i tuoi occhi- Jarmila Ockayova;
La casa del buio & Tutto è fatidico- Stephen King;
Grey’s Anatomy-
lunghe citazioni, varie stagioni serie tv;
Un dolore privato- Elio
e Rosanna Morlino;
Notturno-Helen
Humphreys;
Chissà se stai dormendo- J.
Lloyd & E. Rees;
Sull’amore- Crepet;
Solo con gli occhi- Wataya
Risa;
Operette morali- Giacomo
Leopardi ]
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