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mercoledì 18 settembre 2013

Il vero fa male, ma va conosciuto: BASTA STATI DI FB IDIOTI

Il vero fa male, ma va conosciuto: 
BASTA STATI DI FB IDIOTI, il tumore al seno è una triste realtà non un giochino del cavolo su un social-network o uno scambio di mail assurde.

Capisco la campagna delle femministe, capisco che si tratta comunque di impegnarsi, di provare a fare Qualcosa, quindi lo trovo migliore dell'ignorare totalmente la faccenda.

MA
Questo è Vero, Questo fa male, Questo sensibilizza sul serio sul tumore al seno.
Non scrivete colori di mutande, numeri di scarpe, e posti a seconda del compleanno o di chissà cosa per far credere che siano dimensioni o viaggi esotici: sensibilizzare davvero vuol dire conoscere. Vuol dire scontrarsi con la bruttissima realtà.
Io non vado 60 mesi in Africa o il mio moroso a chissà cosa di 30 cm che dura 10 ore: Io leggo cosa succede, cosa si può fare, cosa vuol dire davvero.
E lo condivido con voi.

è forte, è triste nessuno chiede di leggere e informarsi Per forza.
Ma se davvero vi interessa, se davvero volete rendere più sensibili alla questione gli altri (e a quanto pare i maschi in particolare): Condividete il vero, non stati idioti.



http://www.linkiesta.it/the-scar-tumore-al-seno

sabato 14 settembre 2013

Fraganze 11 Stazione Leopolda 13-15 Settembre

FRAGRANZE 11


13 settembre 2013
Stazione Leopolda



Con grande piacere informo riguardo " Fragranze", che torna alla stazione Leopolda da oggi (apertura al pubblico, 14 settembre) a domani 15 settembre! 

Profumi, emozioni, sensazioni ed ottima compagnia tornano a farci compagnia in questo week end di sole e novità. 
E quale migliore occasione per avviarsi, felicemente, verso l'autunno? Non rimarrete delusi, ve lo assicuro...

Qualche foto delle scorse edizioni 









giovedì 12 settembre 2013

Il mondo nei tuoi occhi







Il mondo nei tuoi occhi






mi prese del costui piacer sì forte,
che, come vedi, ancor non m'abbandona.







È mentre ascolto le note di Tiersen che mi torna in mente A.
In questa fredda serata invernale, un thè, poche note e tanti ricordi… ricordi che non possono perdersi, sogni, parole, battaglie, dubbi, pensieri che vanno raccontati.
Il plumbeo banco di nubi che ha minacciato pioggia tutto il giorno ha dato seguito al presagio, e come le gocce che scorrono impavide sulla mia finestra, questi ricordi devono scivolare dalla mente al cuore… dal braccio, alla mano, alla penna, alla parola. Devono prendere forma per non essere dimenticate, per essere comprese,
per essere ascoltate.


Oltre al suonare, il dott.re A adorava riparare la gente.
Inerti corpi prima caldi, si perdevano in una specie di falso contatto col sorriso e il calore cominciava a disperdersi con lo stesso ritmo con cui una pietra si raffredda dopo essere stata tutto il giorno al sole.
Guardava il tutto impassibile, dietro la mascherina ed i guanti insanguinati.

Il cuore del paziente ancora batte, non viene fermato durante questa operazione, e spera insieme ai polmoni che combattono per non perdere il respiro.
L’innesto su arteria sana, lo stabilizzatore tissutale che limita il movimento di una piccola area del cuore mentre il resto dell'organo continua a pulsare normalmente…
E non è forse questo che si fa ogni giorno? Fermarsi un attimo, frenare la rabbia,
il rancore, il pianto… sapendo che il mondo continua a girare e che ti devi comportare il più normalmente possibile continuando a camminare in un mondo di folli.
Che non devi arrenderti, non puoi fermarti ma puoi fingere di star bene mentre qualcosa si è rotto, qualcosa non fa più.


Le lacrime dei parenti rimbalzano al suolo come perle di una collana spezzata
e gli interventi si susseguono uno dopo l’altro, mani ferme, cuore stabilizzato…
il tuo dottore,
per questa volta.

Prima di conoscere il sapore delle fragole con lo zucchero, non le chiediamo ogni giorno. Ma una volta conosciuta la potenza, l’adrenalina, l’energia che qualcosa che ti piace infonde nel tuo essere, nel tuo animo: non puoi farne a meno.
E così è per te l’operare.
Come un funambolo, con in bilico la vita delle persone, cammini sulla corda tesa accettando il rischio: non puoi pensare che puoi cadere, non deve succedere e assapori il gusto che procura scampare al pericolo.
Se passi la vita cercando di non rompere niente, lentamente muori.
Quindi tu continui ad operare, a rischiare, a guarire e talvolta, sottovoce,
ripeti un nome. Risponde soltanto il tuo silenzio, ma le stelle brillano ugualmente.
È quel maledetto, sopravvalutato, scivoloso, grottesco, inaccessibile dentro
che non vuoi ascoltare.
Quello solo non vuoi guarire, non vuoi affrontare, non vuoi capire.
Guardo la finestra e mi ricorda il tuo sguardo perso nel sangue.

Il pomeriggio in cui mi accorsi di te A. … fu il più bello della mia vita, ma anche il più brutto. Davi l’impressione di un delicato dipinto racchiuso in una cornice troppo pesante: un volto cosparso di rughe che racchiudevano preoccupazioni nascoste. Le sopracciglia come piccoli ombrelli spioventi, e gli occhi di un castano chiaro, fragile… dolce. Ma lo sguardo triste, perso.
Avere in mano la vita delle persone può dare gioia, soddisfazione, potere, ma può anche gravare come il peso di tante tombe, ed il corpo raddoppia il volume… come se le morti passate lo stessero tirando giù, verso di loro. Il cuore, le prime volte dispettoso, irrequieto come un uccello in preda al panico, aveva a sua volta imparato a capire, ad aspettare, a dimenticare. Ma rimaneva intrappolato in cerca di fuga, come nella grande sala di un tempio.
La pelle levigata e tesa come quella di un tamburo, i brividi che percorrono la schiena per un lungo attimo nonostante il caldo del camice e del corridoio e uno sguardo alla solita finestra, fedele compagna in questo percorso di vita: il cielo si tinge di  bruno, di fango… sbattuto di qua e di là come un foglio di carta al vento, deglutisci e ti avvii verso i parenti del paziente.
“Ma è sicuro, dottore, che le analisi siano fatte bene? Non è possibile! Si sbaglia!”
e dalla negazione passano alla rabbia, alla depressione, al crollo…
Qualcosa non va e tu l’hai trovato, è inguaribile e non sei Dio come pensavi con in mano quel certificato di studi, dopo tanti anni di sudate carte.
Annuisci, lasci parlare gli assistenti, gli infermieri e te ne vai, tornando all’incommensurabile profondità dell’apparenza come diceva Nietzsche.
L’uomo “non vuole nulla e non pensa nulla, il suo cuore è fermo, solo il suo occhio vive. È una morte ad occhi aperte”.

“Come fai a vivere così?” ti chiesi un giorno. “è ciò che ho scelto. È ciò che amo.
È ciò che sono.” Mi rispondesti. “ Sarebbe stato molto più semplice nascere sasso.”
“Cosa intendi?” mi avevi incuriosita. “ Saresti ancora più freddo, posato, forte?”
“Non è per questo. Intendo un sassolino di fiume, non una roccia. Un piccolo sasso rotondo, levigato dalla corrente, un bel giorno trovato da un bimbo che mi stringe nel suo pugno e mi porta in tasca considerandomi speciale speciale… per niente al mondo mi scambierebbe con qualcos’altro”
“ma per me tu sei speciale!”
“non lo si è mai abbastanza, Mai abbastanza.”


Pulisci il cucchiaino del caffè passandolo tra labbra e lingua, godendoti l’ultima amara goccia di piacere e rimiri la finestra. Cosa dirai mai a quella finestra che non puoi comunicare a nessun altro? Cosa pensi ogni volta che cammini con quello sguardo perso, freddo, posato?
Sono gelosa di una finestra, figurati. Lei ha sempre le tue attenzioni, lei racchiude i tuoi più profondi pensieri, le tue riflessioni e sa di vederti ogni giorno, per studiare, per capire meglio un caso, per guardare oltre la siepe, e quando si fa buio, darti la buonanotte e poi di nuovo il buongiorno.

È questa la tua grande colpa A., il silenzio. Il tenere tutto dentro: il non avere saputo, il non avere avuto l’umiltà di dire a un fiore, tu che respiri come me, aiutami.

Una volta mi tenesti tra le mani, oltre al guardarmi, al rivolgermi poche parole, mi sorridesti e carezzasti dolcemente. “è così che sarà il paradiso” pensai “è questo che succederà se saremo tutti più buoni”.
Ma rare volte ti ho visto così tranquillo, la tua intolleranza si mostrava direttamente proporzionale al passare degli anni: maniaco dell’ordine, del controllo,
della diffidenza.

Ti ho visto uscire con qualche donna, tornare stanco, deluso; un’infermiera, la capo sala, la segretaria, persino, una volta: ma nessuna ti soddisfaceva, nessuna riempiva il vuoto che celavi ben bene ma che io vedevo ogni sera, ogni tramonto, ogni alba.
Retrogusto di tappo in tutti i sorsi che queste parentesi femminili ti offrivano di sé.
Spudorate, timide, a volte, insistenti, spesso.
Fin quando una volta ti vidi tornare con un profilo migliore, di una semplicità incantevole:
ma anche quello non durò.
A quanto pare era un limbo fatto a gironi, ma avresti mai raggiunto il tuo paradiso?
Certe aspettative, a volte, pesano più dell’indifferenza A.
Capirai un giorno che non esiste la perfezione: non esiste in assoluto, non ha senso cercarla, non ha senso chiederla e farla giudicare. Non coinvolgere i tuoi familiari, non richiamare i tuoi fantasmi, Vivitela, vivitela e basta!
In quel lato del cuore, quel lato irrazionale che tu credi di detestare in realtà ci sono scritte tutte le tue speranze. Sono quelle che ti rendono speciale, sono quelle che lo fanno battere, che ti provocano emozioni!
Credi che il freddo sguardo da chirurgo ti porti avanti a vivere?
Perditi nell’inconfondibile leggerezza dell’essere ogni tanto… permettitelo.
Lo meriti, lo aspetti. Lo vuoi, lo so meglio di chiunque altro. È questo che ti rende speciale A., è questo che ti rende fragile, lo so, ma che ti rende unico.

Lasciati una possibilità di vita: hai bisogno di vivere per riuscire a darti fiducia,
ed hai bisogno di dare fiducia per vivere.

Mi guardavi e sussurravi “certe donne sono trappole in cui si cade e da cui non si ha più voglia di uscire. Io non posso rischiare, non mi posso perdere.
Da un amore totale non ci si riprende mai”. E ti rimettevi sui libri, trattati di pagine e pagine, anatomia, calde viscere descritte in fredde righe contate. E leggevi per non andare alla deriva da solo, sognando il mare senza età, l’umiltà ed i piaceri dell’infanzia.
“ È come un fulmine su un albero: arriva ed in un momento bruciamo, bruciamo ed è intenso, meraviglioso. Poi non resta che cenere. Non si è mai visto un ceppo, anche vivo, ridare corpo ad un albero intero ed io non posso permettermi di essere cenere, morirò albero, solo, ma rimetterò in vita tanti altri alberi che potranno scegliere se ardere, o marcire, se fiorire o seccare…
A loro darò la scelta, io starò a guardare, a dirigere l’orchestra.”

Eppure sentivo che l’obiettivo di entrambi non era raccontarci il passato,
ma inventarci un presente.

Tornavi in ospedale, I chirurghi sono molto attenti ai dettagli: vi piacciono le statistiche, le liste di cose da fare e le procedure degli interventi. I pazienti vivono perchè vi piace studiare i passaggi, ma per quanto vorreste sempre far affidamento sui numeri e sul protocollo, sapete anche che alcune delle più grandi scoperte scientifiche sono capitate grazie ad un incidente.  Dalla muffa la penicillina, dalla corteccia di un albero velenoso una cura contro la malaria. Da una compressina blu contro la pressione alta l’impotenza è stata bandita.  E’ difficile accettare il fatto che non siano sempre il duro lavoro o l’attenzione ai dettagli a darvi le risposte che cercate. Ma a volte dovete solo sedervi, rilassarvi e aspettare l’incidente fortunato:
e se questo non accade, dimenticarlo. Non permettere che ti trapassi come un treno in corsa, come un carro senza freno.


Ti sfili i guanti, un’altra anima persa, non è colpa tua. Hai fatto ciò che potevi.
Ma un guanto è come un ricordo: conserva la forma del corpo così come il ricordo conserva quella della realtà; cerchi di autoconvincerti, va tutto bene A., non è colpa tua, hai fatto il possibile. Ma il guanto è distante dalla tua mano quanto il ricordo dal tempo andato. È un indumento nostalgico, il guanto.

Vuoi dimostrarti freddo, esser controllato ma in realtà io so che hai in te una dolce sensibilità: ed è questa caratteristica naturale di chi ha ricevuto qualcosa di assolutamente prezioso dai genitori.
E sai perché sei bello? Perché non hai gerarchie, perché non hai tempo, non hai consapevolezza del tuo fascino. Un’orgia di sentimenti in cui non si comprende chi ha la meglio, in cui non si può prevedere se alla fine vincerà la morte o la vita, l’amore o il dolore. Il tempo ti ha sicuramente rubato una cosa molto preziosa:
la spensieratezza.
Ma vedi, nella storia di ogni persona c’è una diga. Da una parte, l’acqua che cresce e scalcia ed è energica. Oltre lo sbarramento, la terraferma. Io di te so la terraferma, perché non mi racconti l’acqua che non ho visto?

Ti ho visto felice, raramente, deluso, crucciato certe volte…
ma ancora non comprendo come quando tutto crolla tu riesca a stare in piedi.
Il destino non fa cenni: alza la mano e dà la risposta, non suggerisce. Le risposte le hai quando lui ha finito e c’è quando guardi indietro, mai quando guardi avanti.
Hai sempre sorriso poco perché non ti riusciva bene,
per sorridere bisogna essere allenati.
Ma Mai e dico Mai ti ho visto piangere. Anche quando il destino ti ha portato via la tua cara sorella, unico sfogo, unica parentesi dalla tua perfetta ininterrotta ascesa, carriera, hai serrato la bocca.
In cortile c’era un circo senza biglietto: querce contorsioniste, uccelli funamboli e pini trampolieri. Tu hai acceso la tua Marlboro e hai guardato il vuoto.
“Non sto fumando troppo, fanno le sigarette più corte è per quello che durano meno”, hai detto guardando verso di me. E poi sei tornato alla sigaretta, che via via bruciava, finiva, ti lasciava anche lei,
solo.

Ti darei azioni in cambio di pensieri A., sul piatto della bilancia, lo so, ci perderei nel cambio della valùta, ma quanto vorrei farti vivere davvero, farti emozionare, anche piangere se possibile, ma lasciarti andare.
Ogni persona fa finta: fa finta di essere felice, fa finta di dimenticare, fa finta di essere speciale, di innamorarsi, fa finta di essere immortale.
Ma come faccio a farti stufare di queste maschere? Come faccio a farti togliere il tuo velo? A farti mostrare per quello che sei e davvero provi?

Cos’ha il tuo sguardo…? non mi rassegno che quello sia il tuo sguardo, e basta.
L’autodifesa, il disincanto… ma anche tu sei fragile A.!
Che vuol dire avere bisogno? Si hanno un sacco di bisogni.
Bere, mangiare, innamorarsi.
No quello non è un bisogno dottore non è una debolezza, quello è un sogno, è uno spaventoso abbandonarsi, un dolce crederci.

Quando ho messo a stendere le parole nere sul foglio bianco e la verità le ha asciugate ho capito che la verità non è fatta di bianchi, né di neri, e nemmeno di grigi: la verità è colorata, e fa male spesso, fa male. Ma non puoi ragionare solo con la mente, solo di “pancia” dottore.
Le esperienze restano poco nell’anima, fanno spazio ad altre esperienze come le cose che mangi: l’intestino sparecchierà tutto.
Ma il cuore no, quel che rimane ti uccide… o ti fortifica, ma rimane nel tuo sangue, nelle tue ossa, nelle tue vene. Ed il tempo si diverte a rovesciare clessidre.
Riinizi da capo, ti rialzi, caschi, ti rialzi ancora. Ma non sentirti per questo un debole!

Stai spesso in silenzio, ma ti sento dalla finestra ascoltare dolci sinfonie…
Mozart il più delle volte.
Ci sono sinfonie che andrebbero messe in tasca, per tirarle fuori quando servono.
Ci sono sinfonie che andrebbero caricate come pistole, per premere il grilletto
e ammazzare il dolore che, se rimane inspiegato, cresce.

Tu sei effettivamente come l’albero che mi narravi, che non vuole bruciare.
Il legno sembra fermo, ma è sottoposto a pressioni interne che lentamente
lo spaccano.
La ceramica si rompe, fa subito mostra dei suoi cocci rotti. Il legno no, finchè può nasconde, si lascia torturare ma non confessa. Tu sei di legno. Hai sempre pensato che dovevi cavartela da solo, imparando a fare i conti con le storie degli altri, con i loro organi, non con i tuoi. Ma il cuore ha più memoria di te.
Le ferite sulla pelle si rimarginano in fretta, l’epidermide si rinnova di continuo, contiene molte cellule staminali, sono cellule pronte a rimpiazzare quelle morte, sono le seconde schiere di un battaglione. Il guaio è che il cuore di queste cellule miracolose non ne ha.
Hai una sola fila di soldati. E Amen.

Chiudi la finestra e devo smettere di guardarti, la notte inizia a cullarci ed il vento fischia dalle serrande chiuse male.

Per te essere grandi significa saper rinunciare. “Chirurgo”, rispondesti subito quando da piccolo ti chiesero cosa volevi fare. E da grande mi sussurrasti che avevi voglia di vedere le persone dentro, tu che dentro non le avevi mai sapute vedere. Chissà se c’è un marchio, un’etichetta, se l’anima dà qualche segno di sé.
Ma la tua anima dov’è? L’hai mai lasciata andare davvero?

Per qualche strana ragione tieni separate mente e cuore, ragionamento e sentimento, come due pietre magnetiche dello stesso polo.
Il cielo davanti a me pallido riflette sulla tua finestra i sogni passati e le speranze future.
Cosa ha in serbo per te il destino? Sarai capace di assecondarlo, di arrenderti a viverlo, questo Domani?
Vorrei qualcuno che prendesse ad una ad una le corde nere attorcigliate intorno al tuo cuore come capelli impigliati in un pettine ed iniziasse a scioglierle e domarle, a carezzarle.
Per ora preferisci il controllo, i corpi inermi che si piegano sotto i tuoi ferri, le decisioni dal tuo lato, da soggetto. Non ti piace esser scelto, non ti basta partecipare ad un consenso, vuoi decidere tu, e basta.
Il tuo tocco gelido come acqua di roccia mi ha percorso con un brivido.

Le dimentichi le debolezze, le rimuovi. Come quando si schiaccia un cuscino col dito: si sente una morbida resistenza e subito l’incavo sparisce ed il cuscino torna bello liscio come prima. Così tu, puoi cedere per un secondo, puoi sbagliare, avere un’indecisione, ma non se ne deve accorgere nessuno: tutto deve tornare regolare, ligio al dovere, attento ai minimi dettagli di perfezione.

Avevo l’impressione di fondermi nel vento mentre tu, di nuovo alla finestra dell’ospedale, fumavi in pausa un’altra sigaretta, con nello sguardo di vaga sonnolenza che accompagna la tristezza più cupa e senza lacrime.
“Ancora condoglianze dottore… ”, annuivi. Della gentilezza che te ne facevi?
Non avrebbe fatto tornare in vita tua sorella, non avrebbe migliorato le cose, e non ti dava sollievo, tanto meglio non provar nulla e rimanere fermo, apatico, statico.

Ancora per mesi ti osservai, e passarono gli autunni, gli inverni, e le primavere
tornò l’ estate e con quella un accenno di sorriso.
Finchè un giovedì pomeriggio, che sembrava proseguire come ogni altro giovedì, incontrasti i suoi occhi nella grande vetrata del corridoio centrale, dove il paesaggio notturno, velato da una tenue pioggerella estiva,
si perdeva nelle prime tenebre.

Vi guardaste per un attimo,
un secondo lungo un secolo da quanto mi sembrò notare.
Lei, gli occhi come la notte, scuri, profondi e una scia di splendore caldo e luminoso. Ecco cos’è il fascino! Pensasti.
E tu, buffo per una volta. Impacciato oserei dire, timido, scostante verso qualcosa che per un attimo non riuscivi a controllare.
“Le piace eh?!” osa un collega “ è nuova in reparto, anche noi l’abbiamo vista entrare da poco, è una tirocinante!”
Scosti lo sguardo distratto e offeso.
“Si dice viva solo di impulsi irresistibili e la cosa incredibile è che ha la forza di realizzarli!”
L’opposto mio, pensasti . Salutasti mostrandoti indifferente ai racconti del collega, la guardasti un’ultima volta sorridere, sicura di sé quasi troppo,
e tornasti verso casa.

Nell’aprire la porta, un sussulto. Era come se tutte le cose che avrebbero dovuto esserti familiari si girassero dall’altra parte. Entrasti timidamente, quasi chiedendo permesso come in casa d’altri. Cosa ti succede A.? guardasti dalla finestra. L’aria color grigio piombo.
Le nuvole venivano trascinate via dal vento con una forza incredibile.
In questo mondo non c’è posto per gli attimi felici, se ci sono, pensasti, come queste nuvole verranno presto spazzati via e allora perché illudersi perché volersi far del male? Nessun posto. Ed ognuno è solo sé stesso, purtroppo.

Il tempo scorreva trasparente, silenzioso, goccia a goccia accompagnato dal rumore dei ferri. Ma quel che poteva sembrare una routine quotidiana, a me appariva tanto diversa dal solito: vedevo uno sguardo nuovo, differente.
Ed una certa smania di conoscenza, una velata curiosità.
Ancora sguardi che si incrociano nel riflesso di un vetro, e una mattina un caffè fugace, sorpreso al tavolo per un ritardo dovuto al traffico, sfiori la sua mano su una bustina di zucchero da conquistare.
“Prego, prima lei” e abbassi lo sguardo. Sorride.
Leggi distratto un appunto sulla sua agenda: “Chi più si ama meno può amare. Leopardi
Quanto è vero. Chissà un giorno non finisca di innamorarmi di lei, pensasti.
Non c’era fretta, ma c’era curiosità e la guardavi.
Me ne innamorerei a poco a poco, in conversazioni come queste, fatte di sguardi, di poeti, di pensieri raccontati dalle carezze. Come quando le stelle appaiono da qualche spiraglio di un cielo coperto di nuvole.

Chi nella vita non capisce almeno una volta la disperazione e non capisce quali cose valgano davvero, diventa adulto senza mai capire cosa sia veramente la gioia.
Le cose da fare in ospedale in quel periodo erano moltissime, ed i giorni rotolavano senza che riuscissi a capire cosa stesse succedendo.
La nuova dottoressa però dava sempre un fervore diverso al tuo sguardo, che chiedesse un’indicazione, venisse mandata da te per un consulto o semplicemente incrociasse il tuo sguardo in caffetteria o in corridoio.
Iniziavi ad ammettere che le sue labbra vermiglie sfoggiavano una rotondità carnosa che suscitava costantemente il desiderio di un bacio.
In piena forma, la misteriosa dottoressa indossava il camice abbastanza da lasciar intravedere l’anatomia ben proporzionata, da lasciar indovinare le forme, ma non troppo, in modo da rimanere elegante e con semplice apparizione calamitare gli sguardi.

Sentivi qualcosa A., e lo devi ammettere. Ti sentivi più tu, di base.
La forza della bellezza è quella di far credere a quanti le vivono accanto di essere diventati belli anche loro. E tu ti sentivi, A., e ti sentivi più bello, più vivo, più motivato. Ma come si era ampliato il senso del bello, si era manifestata una sensazione di mediocrità che ti trafiggeva come una rilevazione nei confronti di molte persone che frequentavi in città.
Non l’avevi mai percepita in modo così netto ma da allora non ti abbandonò più. Futili discorsi, vuoti, inconsistenti ti ronzavano all’orecchio infastidendoti, annoiandoti. Preferivi un’intera giornata in sala operatoria, al riposo pitturato di mediocrità, circondato di false speranze, e risatine e povertà lessicale. Un fantasma afono e trasparente avrebbe fatto più colpo di loro sulla tua attenzione.
Capisti che il modo migliore di ottenere una risposta soddisfacente era ormai non fare domande, e iniziasti a preferire sempre più l’ospedale, la casa e la nuova ragazza alle compagnie conosciute dall’infanzia, ma ormai prossime al farsi una strada loro, un percorso diviso e diverso dal tuo. La nostra società è organizzata in modo tale che conviene essere una cosa piuttosto che una coscienza. Pensasti.

Ma l’aspettativa è una bestia che si nutre di sé stessa.
A volte quello che ci aspettiamo al confronto con quello che non ci aspettiamo impallidisce. Dovremo chiederci perché ci attacchiamo a queste illusioni, perché quello che ci aspettiamo ci fa restare fermi in attesa... quello che ci aspettiamo è solo l'inizio. Quello che non prevediamo invece è ciò che cambia la nostra vita.

C’e’ un motivo per cui i chirurghi imparano a maneggiare i bisturi.
Vi piace fingere di essere scienziati duri e freddi.
Vi piace fingere di non avere paure.
Ma la verità e’ che diventate chirurghi perché da qualche parte, in profondità, pensate di poter tagliar via quello che vi tormenta: debolezza, fragilità, morte.
Ma nella vita, A., solo una cosa è certa, a parte la morte e le tasse.
Per quanto cerchi di evitarlo, per quanto buone siano le tue intenzioni, commetterai degli errori… ferirai delle persone. Sarai ferito anche tu. 



Tutte uguali son le strade di vita, nessuno avverte della via sbagliata
E nella selva oscura dell’orrore, turbina l’uomo come sabbia al vento.
Ma io lo sento che sei cambiato, che provi qualcosa, che vuoi qualcosa.

Voglio che tu prometta questo, dottore: Se ami qualcuno, diglielo.
Anche se hai paura che non sia la cosa giusta.
Anche se hai paura che possa portare qualche problema.
Anche se hai paura che rovini completamente la tua vita.
Dillo.
Dillo ad alta voce.
E poi riparti da li.

So cosa puoi pensare: sono di legno, non sono un bravo nuotatore.
E questa sensazione è come un trampolino, come sull’orlo, con alla fine il vuoto ed un silenzio profondo, più profondo di un baratro. Proteso verso quel richiamo che ti avrebbe tolto all’abbandono, decidesti.
Mi farò avanti per una cena, cosa capita capita.
E ti avviasti verso la macchinetta del caffè, dove Lei era solita andare nel primo pomeriggio verso quell’ora: durante l’attesa non si capisce se sia gioia o supplizio quello che stai vivendo. È come prepararsi ad un salto di cui non si conosce l’arrivo.

Ti blocchi, forse non è il caso. Perché rompere un così ben costruito equilibrio, perché rischiare quando ora la vita la trascinavi così bene?
Ti volti: dieci passi per sparire, dieci passi per lasciare tutto come era,
per rientrare nel dolore.

Non chiedetemi come fosse mia madre. Tutti iniziano a pensare: è così perché è stato cresciuto così, sarà la mamma che l’ha fatto diventare tale.
Mia mamma ha solo fatto ciò che di più splendido una mamma possa fare: mettermi al mondo. E si può descrivere il sole? Emanava calore, forza, gioia.
E mio padre aveva folti capelli scuri, ed occhi di ghiaccio: forse da quelli avevo preso un po’ del mio freddo. Ma era tanto sereno quell’uomo, pacato e sempre gentile. La voce da nobile, solenne, spessa, profonda, color delle statue di bronzo illuminate dalle candele.
Era il nostro sangue che ci vietava di nascondere la verità ai pazienti, ma di chiudere la nostra in un cassetto.

Tornasti davvero indietro. Un po’ me ne compiacqui, sono gelosa lo ammetto,
ma mi incuriosiva vederti così preso per una volta, in fondo mi faceva piacere…
Tornasti a casa sotto il firmamento, velluto profondissimo trapuntato di diamanti.

Non vi eravate mai detti addio, con tua sorella.
Questo di certo non aveva migliorato la situazione. Tu già alquanto burbero, tanto chiuso a riccio in quella corazza di legno a te tanto cara, invece di iniziare a scheggiarlo, questo legno lo rinforzasti.
“Potresti essere un po’ più dolce fratellone, non devi fare sempre il duro” diceva spesso tua sorella. Ma tu continuavi ad accusare, invece di giustificare.
Attaccare quando eri sospetto. Mordere anziché difendere.
Ed era raro tu parlassi di te stesso. Aveva provato a portarti al fiume una volta, stuzzicandoti con qualche frase di Leopardi, con qualche carezza, cercava di tirare fuori quel po’ di te tanto difficile da scavare. Ottenne scarsi risultati.

Tentò una volta anche di portarti in chiesa: non una ricca, sfarzosa chiesa imbarazzante. Ma una chiesetta di legno, semplice, calda, colore del miele. Rifiutasti.
Da chirurgo non potevi pensare ci fosse qualcun altro a decidere sulla vita e la morte. Un giudizio universale, una sorta di destino superiore, ci stava, ma l’idea di incontrare uno che era “il padre” del mondo intero, o che passava per tale ?
non ci tenevi granchè.

Una volta però incontrasti un frate. Un fraticello lungo e stretto, che dava l’impressione di essere composto da due parti scollegate tra loro:
la testa ed il resto. Già ti piaceva, lo sentivi simile a te.
Il suo corpo sembrava immateriale, una stoffa priva di rilievi, un abito nero che cadeva a piombo come se pendesse da una gruccia e da cui sbucavano piccoli sandali cordati, senza che si vedessero le caviglia che contenevano.
Tutto l’opposto di Lei, pensasti. Fossero tutti così i cristiani che girano nel mondo, veramente si eviterebbe ogni tentazione e si starebbe tanto meglio, a mio parere.
In compenso dal saio sbucava la testa, rosea, viva, nuova, innocente, come quella di un neonato appena uscito dal bagno. Veniva voglia di abbracciarlo, ma che dico…

Lo osservasti chiedendoti come mai quel viso non ti sorprendesse affatto e anzi avesse quasi l’aspetto di una conferma. I suoi occhi sinceri ti scrutavano da dietro la leggera montatura degli occhiali. Improvvisamente capisti “è senza capelli!” esclamasti, e lui sorrise. Da quel momento cominciasti a volergli bene e anche senza parlare, tornasti in quel convento sul colle tante e tante volte, sedendoti di fianco al Frate, confessandogli tanto di te, solo con lo sguardo ed il silenzio.

Volevi convincerti di non voler bene a niente e nessuno, era più facile.
Facevi il tuo mestiere, il chirurgo, e ti sembrava anche troppo.
Ma guardando i bambini correre nel vialetto di casa, giocare, spensierati, in fondo pensavi che più tardi si diventa adulto e meglio è.

L’ospedale era il tuo vialetto, la tua vera casa ormai, quello ti dava, stranamente, una serenità pacata: il controllo, le vite, il silenzio, l’asetticità e la pulizia degli ambienti ed il sangue, tante volte si, ma uno scorrere controllato, zampillii che sapevi comandare.
Monna Tessa era un ottimo ospedale, chirurgia all’avanguardia, operatori di prima categoria e medici scelti e con grande attenzione. Era acciambellato come un gatto gigante in cima alla collina, bianco e azzurro chiaro come il cielo e le sue nuvole in una giornata primaverile. Al piano superiore due grandi vetrate ovali a forma di palpebre dominavano l’edificio e osservavano con fissità tutto ciò che accadeva in cortile tra cancello e platani. E dal cortile, sia dell’ospedale che di casa tua, la guardia veniva passata a me, fragile e silenziosa, ma vigile, attenta ad ogni dettaglio. Guardando in alto, il tetto, dove sorgevano due balconi mansardati in ferro battuto che facevano pensare alle orecchie mentre l’edificio piegava verso sinistra, come una coda.
Da sempre volevi essere tu primario. Primario dell’ospedale,
Primo in tutto, in realtà.
Ma per ora c’era Humphreys a scaldarti il posto: alto, come appeso ad un filo, braccia e gambe gli pendevano nel vuoto. Capelli bruni, troppo ispidi, troppo duri come stupiti di essere lì. Sempre elegante, sempre sicuro di sé, veniva avanti per i corridoi lentamente, osservando tutto e tutti e sorridendo, a volte. Come per scusare la sua infinita altezza, come un dinosauro indolente che dica:
“non abbiate paura, sono buono, mangio solo erba”.

“Lei sta uscendo con uno, lo sai?” il solito collega con poco da fare, e tanto da parlare. Le macchinette del caffè possono essere luoghi pericolosi, certe volte.
E spiacevoli.
Cercavi di fare l’indifferente, ma dentro ti rodeva questa cosa, non ti andava giù, come un boccone di traverso, come un pezzetto di cibo poco masticato.
Rispondesti questa volta, velando l’essere stizzito: “è una bella ragazza, una bella donna, ci sta. Perché dovrebbe interessarmi questa notizia?”
“Si fa per parlare dottore e poi girava voce in ospedale…”
“Le voci non devono girare. E rimangono voci non fatti.”
“Mi scusi…”

Tornasti in sala operatoria, ti aspettavano equipe e paziente, lui un po’ meno cosciente. E cercasti di ignorare il chiarimento, deciso a trattenere solo quello che ti conveniva. Deciso a concentrarti sul tuo lavoro e nient altro.
Anestesia locale per addormentare completamente la zona, perché con il paziente riesce tanto bene e con i tuoi pensieri, no ultimamente?
Procedi poi con l’incisione che permetterà di estirpare la zona affetta,
“Bisturi lama 12, prego”.
Tutti ai tuoi ordini, tutta la catena perfetta, come un montaggio per successioni, ben impostato, anche se qui stai smontando, stai aprendo, scrutando.
Prolassamento sul tessuto circostante. Insistente questo forestiero.
Ed in effetti un po’ di scoccia di questa uscita, vorresti estirpare anche quello di sconosciuto. Lei non è sua, ne sei certo. Lei non può essere di nessuno.
O forse tua, al massimo, ma questo chi è?
Come qualsiasi altra operazione è richiesto un periodo di recupero di varie settimane. E questo aspettasti anche tu, insieme al paziente sonnecchiante, che sorrideva alla notizia dell’operazione riuscita.
Alcune emozioni si rivelano così potenti che tristi o liete che siano, ci distruggono.
Ed era così assurdo che l’assenza di Lei, quasi sconosciuta, potesse darti tanto pensiero.
Iniziava una nuova estate e passavi ancora meno tempo fuori dagli edifici: preferivi fuggire il caldo, perché il sole faceva entrare l’allegria nel tuo cuore.
Mentre casa tua continuava a regalarti conforto nel suo armonioso disordine
e l’ospedale nella sua ordinata collezione di vite.

E Lei ti piaceva ogni giorno di più, non poteva più essere tua, ma durante i mesi passati ci avevi parlato più del solito, ci avevi scambiato più sorrisi, più sguardi diretti, senza il riflesso delle vetrate centrali del polo.
Ti piaceva, era arrivata incastonata in un enigma e non smetteva di piacerti perché continuava a rimanere intrigante, mai di meno, sempre di più.
Mentre in passato ti aveva mosso al massimo quello che avevano tra le gambe, di questa donna ti attraeva più l’aspetto romantico, nobile, quasi sacro, e non il sesso.
Forse era stata questa la colpa delle altre, mollate più per i giorni che per le notti: le giornate passate ad ascoltare stupide civetterie avevano sminuito il loro valore, schiacciato il tuo interesse, intaccato la loro aura sotto la cruda luce del sole,
molto più delle notti trascorse a fondersi l’uno nell’altra.
Un mistico in cerca di mistero, che nella creatura femminile avrebbe sempre preferito quello che non dava a quello che concedeva tanto facilmente.
Ma a prescindere dalle belle parole, dai pensieri ben connessi, tu la volevi,
era evidente.
“Non solo i libri sono belli” ti disse una volta “ma mi fanno bene. I migliori antidepressivi del mondo, li dovrebbe passare la mutua!” e ricambiavi il sorriso, quel dolce splendido sorriso.
E pensavi che sì, non avresti avuto troppo tempo per star dietro a Lei ed ai suoi libri, ma che non era giusto ci stesse qualcun altro. Anche se per pochi attimi al giorno, saresti stato volentieri tu il suo antidepressivo, pronto a scriverti nella sua ricetta, pronto a distillare ogni goccia di te, mg in dosaggio idoneo, pur di vederla felice.

Cominciasti a renderti conto di vivere una scenografia, e peggio, una scenografia che non era la tua. Il tempo scorreva in maniera tangibile, come gocce di stalattiti dal soffitto di una grotta.
Avevi passato la maggior parte dei tuoi giorni imparando e ripetendoti che l’importante erano le cose materiali- l’infinita lista di “robe” da acquisire ed esibire- e non davvero le emozioni.

Ti eri trascinato anni, convinto e Certo che amare non sarebbe stato mai l’obiettivo primario, la vera necessità.
Da cosa sei nato A. secondo te? forse non da un atto di amore in fondo?
Ma per te la priorità era sempre stata la sopravvivenza.

E poi era arrivata Lei, facendoti scoprire che si poteva vivere,
non solo sopravvivere, concedersi il lusso di pensare a se stessi:
occuparsi anche dei sentimenti, dei moti dell’animo.
In altre parole, del senso immateriale della vita.

L’innamoramento è una malattia. Solo che funziona esattamente al contrario di una patologia organica: fa tanto bene quanto più fa male.
Più il virus è invasivo, virulento, contagioso, più l’innamoramento è sconvolgente.
Niente bisturi, nessun taglio.
Un sentimento che va oltre la ragione, l’interesse, la convenienza.
S. Agostino diceva “Da mihi amantem et sentit quod dico” (dammi un innamorato e capirà, quel che ti dico), dunque l’ulteriore paradosso: l’irrazionalità porta alla comprensione, alla ragione più profonda, la follia contempla la soluzione.

Da innamorati si ascolta meglio, si vede meglio, si accarezza meglio.
Ti vidi venire verso di me, carezzarmi, poi lo strappo.
Buio, torpore.

Ebbi poco tempo per capire cosa stava succedendo: un po’ di linfa scorreva ancora in me, gocciolava sulla tua mano calda e guardandomi intorno mi vidi più alta, stordita ma vicino a te, il prato lontano, la finestra più vicina, i rumori più compatti, ovattati distanti, ma intorno a me da un’altezza più consona: la tua.
Non stati più calcolando, mi avevi strappata dal prato, emozionato, e stavi buttando il tuo cuore al di là dell’ostacolo, mi rimaneva poco da sentire, vedere, stavo cedendo anche io ma erano gli ultimi attimi più belli della mia vita.
In mano tua e sicuro per finire da Lei, per conquistarla, per confidarle i tuoi più dolci, segreti:
l’amavi.

La passione mette sotto carica la vita, fa tendere come un arco, la fa esplodere.
E per tutta la notte ti eri chiesto, spontaneamente, sei non potevi proprio evitarla questa sofferenza da innamoramento.
E avevi capito: potevi benissimo scegliere, a condizione di voler evitare di vivere.
Pretendere di amare senza star male è come alimentarsi attraverso una flebo:
non si muore, non si vive. Ci si nutre.

“Anche al più duro inverno, segue una dolce primavera”, e avevi deciso che era l’ora di uscire dalla tana, di iniziare la Tua primavera.
Come Lancillotto, consapevole dell’insana debolezza che nutriva per Ginevra, aveva trovato il coraggio di dichiararle che nonostante si sentisse frenato dal timore a gettarti in quel vuoto, non poteva trattenersi:
“ in fondo ho un solo cuore da perdere”, le aveva detto con fantastico ardore.
Così tu per una volta abbandonavi il freddo bisturi e il camice bianco, e ti sporcavi le mani in un prato, staccando un fiore che non avrebbe più potuto raccontare la tua storia, ma che era felice di morire perché ne iniziasse una nuova, non più solo.


Se riesci a superare i confini, la vita dall'altra parte è meravigliosa.





 [Il narratore è un fiore, un’orchidea bianca idealmente presente sia nel giardino della casa che in quello dell’ospedale. Alla fine della storia A. troverà La persona giusta e per donarlo a lei strapperà il fiore. Morto il narratore, di una felice morte, finirà il racconto.]

Questa storia narra di te, o forse di me. O semplicemente di un fiore, di una finestra e di un affermato chirurgo che impara ad amare. Ma poco importa.
Quello che conta è che trasmetta emozioni.










Giugno 2013, Giulia Tolleretti



[ Alcune frasi, citazioni o idee sono liberamente riprese dai seguenti libri/testi:

Ricordi di un vicolo Cieco & Kitchen- Banana Yoshimoto;
Ma le stelle quante sono & Io sono di legno- Giulia Carcasi;
Sdraiami- Barbara del Vecchio;
Cuori allo specchio- Massimo Gramellini;
L’odore del tuo respiro- Melissa P.;
Le luci nelle case degli altri- Chiara Gamberale;
La meccanica del cuore- Mathias Malzieu;
Memorie di una Geisha- Arthur Golden;
La sognatrice di Ostenda & il bambino di Noè & Odette Toulemonde – E. Emmanuel Smith;
Verrà la vita e avrà i tuoi occhi- Jarmila Ockayova;
La casa del buio & Tutto è fatidico- Stephen King;
Grey’s Anatomy- lunghe citazioni, varie stagioni serie tv;
Un dolore privato- Elio e Rosanna Morlino;
Notturno-Helen Humphreys;
Chissà se stai dormendo- J. Lloyd & E. Rees;
Sull’amore- Crepet;
Solo con gli occhi- Wataya Risa;


Operette morali- Giacomo Leopardi ]